di Claudio Giunta
Il libro di Luca Serianni L’ora d’italiano. Scuola e materie umanistiche è per prima cosa un ottimo esempio di come bisognerebbe scrivere in italiano, perché – come sempre Serianni – è limpido, elegante, brioso. Al di là delle cose che dice, L’ora d’italiano è dunque un libro da consigliare a insegnanti e studenti anche solo per la forma, per imparare (o ricordare) intanto questo: come si espongono le proprie idee. La seconda ragione per cui il libro è consigliabile è che si tratta di questa rara avis: un libro sulle discipline umanistiche a scuola che non trasuda costernazione. La situazione non è rosea, ammette Serianni, ma non è mai esistita un’età dell’oro in cui lo fosse, né ha molto senso mettersi a maledire lo Zeitgeist: meglio adeguarsi al nuovo mondo suggerendo piccole riforme sensate. Ma il caso che fa più riflettere è il ‘saggio breve’ di un anonimo maturando: L’anima: perfezionamento, sentimento e distacco. «Parole in libertà», commenta giustamente Serianni, dopodiché riporta alcune righe dell’elaborato ed elenca tutti gli errori che il maturando commette: mette la punteggiatura a caso, abusa delle virgolette, sceglie male le parole. E la cattiva scrittura è lo specchio di una cattiva organizzazione del pensiero: «Si continua infatti tirando in ballo la ‘donna angelicata’ di stilnovisti e Petrarca [...]. Poi si passa a Leopardi [...] e lo si collega audacemente alla Morante [...]. Si noterà il condizionamento dell’impianto storiografico, in genere sacrosanto ma qui non pertinente: per il candidato quel che conta non sono le cose dette, ma l’epoca in cui sono vissuti i due scrittori». Bisogna, conclude Serianni, migliorare, intensificare l’addestramento alla scrittura argomentativa in tutti gli anni della scuola superiore.
Come non essere d’accordo? Insegnare a scrivere, far leggere non solo poesie e romanzi ma anche dei buoni saggi per mostrare come si sviluppa un’argomentazione, è questo certamente uno dei compiti della scuola. A me pare però che l’interesse dell’esempio non stia tanto in ciò che dice circa l’ignoranza del maturando quanto in ciò che dice circa le idee sbagliate che la scuola ha intorno allo scrivere bene e al ben argomentare. Il maturando, infatti, scrive male per voler scrivere bene. Usa una giuntura come «interpretazione univoca», una metafora come «prolungamento del corpo», verbi come «permanere» e «simboleggiare».
Questo non è il linguaggio di un incolto, è il linguaggio di qualcuno superficialmente colto che cerca di mostrarsi più colto di quello che è. E perché questo sforzo? Perché quest’idea sbagliata dello ‘scrivere bene’? Perché quest’idea sbagliata è quella che spesso, esplicitamente o no, la scuola trasmette agli studenti. Se nel linguaggio quotidiano tutti diciamo ‘ci sono’, per iscritto s’insegna a dire ‘vi sono’; se nel linguaggio quotidiano tutti diciamo ‘problema’ o ‘tema’, per iscritto s’insegna a dire ‘problematica’ o ‘tematica’; nessuno direbbe mai ‘egli’, però lo scrive. S’intende che scrivere come si parla non va bene. Ma non va bene neppure scrivere come se scrivere volesse dire indossare l’abito della domenica.
Invece l’obiettivo di molti studenti è proprio questo, scrivere ‘elegante’, e per farlo non trovano di meglio che adoperare stilemi, locuzioni e formule fisse del linguaggio televisivo, burocratico, giornalistico. Stando così le cose, prima ancora d’insegnare a «modulare la scrittura» a seconda dei «diversi contesti e scopi comunicativi» (come suonano le indicazioni nazionali per i licei, sempre troppo ambiziose), il docente dovrebbe fare uno sforzo di semplificazione: non ‘le giovani generazioni’ ma ‘i giovani’; non ‘faccio ricorso’ ma ‘ricorro’.
A questa inutile complicazione nella scrittura corrisponde, nota Serianni, un’argomentazione puerile. Ma qui a me pare che il danno lo facciano proprio i Petrarca, Leopardi, Morante, insomma i Grandi Testi Esemplari intorno ai quali lo studente deve improvvisare la sua gimkana. Certo, invitare gli studenti a scrivere quello che pensano di cose difficili come la letteratura o la democrazia o la pena di morte è un rischio, perché incoraggia il dilettantismo e la retorica dei pensierini: meglio glossare le opinioni d’altri. Ma ho l’impressione che il pendolo abbia fatto ormai tutta la corsa, e che a quel dilettantismo, a quella ingenuità, si sia sostituito un atteggiamento blasé che fa perno sulla stessa ignoranza ma che in più paga il prezzo della posa, della simulazione, e che questo atteggiamento sia, per l’appunto, incoraggiato da tracce come quella assegnata al maturando di cui parla Serianni.
Lo studente impara a nascondersi dietro le parole degli altri, parole che la situazione stessa del tema in classe rende poco meno che sacre, non soggette non si dice a confutazione ma a discussione: hanno tutti ragione, nessuno dice sciocchezze, altrimenti il ministero (o il professore in classe) non avrebbe inserito nella traccia quei brani. È difficile immaginare una strategia meno favorevole alla formazione di quel senso critico che, un po’ stucchevolmente, sosteniamo di voler far maturare negli studenti. Mille anni fa, in La gioventù assurda, Paul Goodman lodava quell’insegnante che aveva dato alla classe questa traccia: «Dite perché odiate vostro padre, perché odiate la scuola, perché odiate me». Sarebbe sciocco (è stato sciocco) elevare questa sovversione a norma. Ma quei temi devono essere stati molto interessanti. [Già pubblicato sul Domenicale del Sole 24 ore, 10 febbraio 2013]